E se ti dicessi che su Instagram puoi conoscere il mondo delle comunità psichiatriche, raccontato da un paziente che ci vive?
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William Grossi è l’influencer di cui abbiamo bisogno, perché parla di realtà semisconosciute anche a quelle famiglie e persone che convivono con la malattia psichiatrica, spesso brancolando nel buio e in solitudine.
Ha 30 anni, fa il volontario per il Servizio civile e ambisce a diventare un Operatore Socio Sanitario; paziente psichiatrico affetto da schizofrenia paranoide, ha portato su Instagram la sua vita in comunità, le regole che la governano, le relazioni tra i pazienti e verso l’esterno, ma soprattutto la possibilità di compiere un percorso verso una vita autonoma e appagante, anche partendo da una situazione di grande difficoltà.
Infatti, William è entrato in comunità 8 anni fa (a un anno dalla diagnosi) su proposta del suo psichiatra, per far fronte a un problema legale dovuto all’aggressività scaturita dal suo disturbo; la prima struttura che l’ha ospitato era di tipo “ad alta assistenza”.
Oggi vive in un “gruppo appartamento”, e gode di un’autonomia quasi totale.
Le comunità psichiatriche sono strutture in cui i pazienti vengono seguiti da professionisti della salute al fine di recuperare le loro abilità comportamentali e relazionali. Lascio la parola a William per scoprire il suo rapporto con la comunità e per conoscere meglio lui e il suo progetto, che personalmente reputo di grande valore informativo e umano.
Quali tipologie di comunità esistono e chi può accedervi?
Il primo tipo di struttura in cui si accede è una comunità “ad alta assistenza”, in cui sono ricoverati i pazienti che versano in condizioni più gravi; ci sono stato per due anni a Lecce, prima di passare alla “casa alloggio”, una struttura con un minore grado di assistenza da parte del personale e in cui si inizia ad avere una maggiore autonomia.
Successivamente, nel “gruppo appartamento” viene concessa una grande autonomia: vi accedono gli ospiti che sono in uno stadio avanzato del loro percorso riabilitativo.
A quel punto si può tornare a casa oppure usufruire del “centro diurno”, in cui i pazienti che stanno bene si recano per alcune ore del giorno.
Negli ultimi quasi otto anni hai sempre vissuto in comunità: reputi positivo il bilancio generale della tua esperienza?
È un bilancio più che positivo: devo ringraziare la struttura per essere diventato una persona migliore. Se fossi rimasto a casa mia, non avrei potuto fare tutti i progressi che ho fatto fino a oggi e sarei precipitato in abitudini devianti e comportamenti sbagliati, rischiando anche anche dal punto di vista legale.
Qual è l’aspetto più positivo della vita in comunità?
Quando hai un problema, che sia di salute o di grane burocratiche, ricevi supporto: non sei lasciato da solo a combattere il mondo, a differenza delle persone come te che vivono fuori. 
Per esempio, dal punto di vista della salute, a noi vengono prenotate le visite mediche e acquistati i farmaci di cui necessitiamo.
Hai mai attraversato difficoltà o momenti critici legati alla vita in comunità?
Certo. All’inizio non accettavo il fatto di stare in comunità, contavo i giorni che mancavano alle mie dimissioni: me li segnavo sul quaderno e ogni giorno sbarravo una casella. Piano piano, l’ho accettato.
Trattandosi di una convivenza, poi, possono sorgere dei conflitti con alcuni ospiti.
Il tuo rapporto con la malattia è cambiato in questi anni? Se sì, in che modo?
Sì, è cambiato perché negli ultimi tempi, anche grazie al progetto social che porto avanti, la mia consapevolezza è aumentata: accetto sempre più la mia malattia e parlarne non è più un problema.
Cosa ti manca maggiormente della tua vita fuori dalla comunità e cosa pensi che ti mancherà della comunità una volta uscito?
La cosa che mi mancherà di più è il fatto che qui non si soffre di solitudine, perché c’è sempre tanta gente con cui parlare, tra ospiti e personale.
Inoltre si fanno delle attività ricreative, per cui si è sempre impegnati.
Ciò che mi manca della vita esterna è la libertà completa, perché qui in comunità devo sempre rendere conto ai responsabili riguardo agli orari d’ingresso e d’uscita, a quello che faccio e a dove vado.
Hai qualche paura legata al tuo ritorno alla vita normale?
Sì. La mia paura principale è legata al fatto che fuori il mondo è difficile per un ragazzo che ha vissuto otto anni in comunità e che si porta appresso un’etichetta di paziente psichiatrico, e deve lottare per trovare un lavoro, inserirsi nella società e crearsi un futuro.
Queste sono sfide importanti e perciò mi sto preparando in vista delle dimissioni.
Immagino sia anche una tensione positiva, stimolante.
Sì, mi stimola a fare di meglio e a fare di più.
Perché hai deciso, nel marzo 2023, di condividere online la tua esperienza di paziente?
Sono partito su YouTube per passatempo e con la voglia di raccontare la vita in comunità, affrontando anche quegli aspetti quotidiani che spesso sono sconosciuti: volevo aprire uno spaccato su questi mondi.
Vedendo che c’era interesse da parte delle persone, ho iniziato a portare sempre più la mia esperienza e a dare consigli; adesso cerco di essere d’aiuto ai pazienti che soffrono come me, ai familiari che mi ascoltano, ma anche agli operatori che lavorano nell’ambito della salute mentale, per far capire meglio come vive un paziente psichiatrico il proprio disagio.
Il progetto è cresciuto tanto in poco tempo, se pensiamo che hai iniziato un anno fa!
Su Instagram, fino a novembre 2023 avevo circa 2/300 follower: ora sono arrivato a 50 mila; c’è stato il boom con un contenuto che è andato virale in Italia.
Il video in cui ti rechi a fare la terapia trimestrale, giusto?
Vedo che l’hai visto anche tu! [è una recente terapia per la schizofrenia che consente di somministrare il medicinale 4 volte l’anno nrd]
Ho visto quasi tutti i tuoi contenuti, William!
Che impatto ha avuto questo progetto nella qualità della tua vita?
Ha avuto un impatto più che positivo, perché ha dato un senso alle mie giornate, un motivo in più per impegnarmi ogni giorno. Ho trovato un significato, che è quello di aiutare gli altri e di essere un riferimento per gli altri pazienti.
Mi sento più contento, più soddisfatto di me e gratificato.
Chi era William al primo ingresso in comunità e chi è William adesso?
Al primo ingresso in comunità ero un ragazzo che mangiava in modo smisurato: pesavo 40 chili in più e non avevo il controllo sulle sigarette, sul caffè e sui soldi; spendevo tutto in modo sregolato. Inoltre trascuravo l’igiene e non avevo forti relazioni con le persone, parlavo poco… tutto questo era dovuto anche alla fase di allucinazioni uditive che vivevo in quel periodo.
Oggi ho fatto enormi progressi nella gestione della vita quotidiana, dall’alimentazione – ho perso quei 40 chili – alla riduzione delle sigarette e dei caffè. Gestisco meglio i soldi e faccio il volontario presso un’associazione. Sono una persona migliore.
Ti senti migliorato anche dal punto di vista relazionale?
Sì, soprattutto da quel punto di vista. Prima avevo difficoltà a conoscere le persone, ad aprirmi e a raccontarmi; ero timido e introverso. Un po’ lo sono ancora, però adesso approccio gli altri senza vergogna e senza timore.
Pensi che il progetto che stai portando avanti ti abbia aiutato da questo punto di vista?
Certamente sì, sia caricando video tutti i giorni, consapevole che mi ascolteranno migliaia di persone, sia partecipando a interviste come questa; sono esperienze che mi spronano ad aprirmi, parlare e relazionarmi con gli altri.
A proposito di esposizione, ti capita mai di ricevere critiche? Se sì, come le vivi e come le gestisci?
Oltre alle critiche costruttive, ogni tanto leggo commenti negativi a volte anche brutti e offensivi, che però non mi feriscono molto, a fronte di circa un 80-90% di commenti positivi e gioiosi che li surclassano. Li prendo con ironia.
Affrontare un disturbo mentale è un’esperienza complessa; che consigli pratici senti di dare a chi ci legge e sta attraversando un momento buio?
Secondo me avere una buona routine aiuta molto la gestione della salute mentale.
Su di me ha influito avere un’alimentazione più equilibrata, ridurre le dipendenze – come fumo, caffè, alcol e sostanze stupefacenti –, spendere di meno, fare attività fisica, leggere… Come dicevano gli antichi, “mens sana in corpore sano”, quindi costruirsi una routine giornaliera sana, equilibrata e fatta di buone abitudini non è la soluzione principale rispetto ai farmaci e alle terapie stabilite dagli psichiatri, ma contribuisce a migliorare la salute mentale.
E agli affetti che circondano il malato psichiatrico, invece, cosa senti di consigliare?
Il consiglio che sento di dare ai familiari è di non far mancare il proprio supporto alle persone care e di non abbandonare il loro paziente.
A volte le parole non sono sufficienti, perché il paziente sta talmente male che non vuole ascoltare nessuno, oppure ciò che gli viene detto non serve perché non viene capito; quindi state vicini al vostro paziente con i fatti.
Quando il paziente versa in condizioni gravi, non bisogna avere paura di rivolgersi alle autorità competenti, quali psichiatri e assistenti sociali; parecchie volte i familiari, per paura del giudizio, non si rivolgono ai professionisti e tengono il paziente in casa, che peggiora sempre di più.
Quali saranno i tuoi prossimi passi personali e lavorativi?
A giugno terminerò il Servizio civile, però continuerò a fare il volontario in questa associazione, che si occupa di trasporti sanitari.
Vorrei intraprendere di nuovo gli studi universitari, ricominciando dalla facoltà di Economia.
Al contempo, vorrei prendere la qualifica di OSS per lavorare in strutture, mettendo al servizio dei pazienti la mia esperienza; per anni ho visto gli OSS lavorare, e un domani vorrei essere io ad aiutare chi ha bisogno.
Mi piacerebbe anche trovare un altro lavoro, seppur consapevole che nel piccolo paese in cui vivo [Avellino ndr] non ci siano molte opportunità.
Come mai proprio Economia?
Mi sono appassionato al tema della finanza personale, soprattutto del risparmio, perché prendo la pensione di invalido civile, che è una cifra piccola, e in questi otto anni mi sono sempre dovuto arrangiare facendo i calcoli per farmela bastare.

Non so a te, ma a me questa storia trasmette una carica fortissima.
Dal TSO – di cui William ha raccontato nel suo libro semiautobiografico – al progetto di un nuovo futuro: cambiare la propria condizione è possibile, nel giusto contesto, con il giusto percorso e con il giusto mindset.
Un piccolo miglioramento alla volta, ci si riprende in mano la vita.
 
                         
                         
                        